La Vita Dei Soldati Italiani A Kabul, Le Esequie Dei Sei Parà Morti
"Più che paura qui c'è apprensione, ci si aspetta qualcosa di brutto", riferisce alle telecamere di Sky il colonnello Ottavio Piccolo, in forza a Kabul.
Cari lettori, pensate domani di svegliarvi e non avere possibilità lavorative. Oppure essere così ottemperanti verso la nazione di collegare i vostri desideri ai suoi. Così partite per un luogo dove si svolge una missione di pace, ma dove i morti si contano come l'erba falciata dal vento.
Così arrivate in uno di questi luoghi, Kabul, vittima ancora dell'assedio talebano che causò la strage dell'11 settembre 2001. E che quella che dovrebbe significare una missione di pace, in verità è più impervia di quanto pensiate.
Forse non tornerete. Un giorno, con i vostri mezzi Lince attraversate una strada che dall'aeroporto di Kabul collega al quartier generale dell'Isaf. Una Toyota bianca si avvicina a voi, contiene 150 chili di esplosivo. Il boato è forte, il fumo nerasto si addensa nell'aria. E voi non tornerete a riabbracciare i vostri cari, i vostri bambini e lo vostre madri.
Perché tutto ciò? È per un senso di onore verso la patria? Forse sì. Per miglioramento delle possibilità lavorative? Forse sì. A guardare dalla carte d'identità delle 6 recenti vittime italiane, la maggior parte sono di residenza meridionale: Antonio Fortunato (Potenza), Roberto Valente (Napoli), Massimiliano Randino, (Salerno), Matteo Mureddu (Oristano), Giandomenico Pistonami (Terni) e Davide Ricciuto (nato a Glarus, Svizzera).
Pensate a ciò, e a tal proposito appare vacuo il gruppo nato su Facebook: "4morti al giorno sul lavoro nessuno dice un cazzo 6militari tutti in lutto?". Un conto è morire per un lavoro che si presume sicuro, magari anche vicino a casa: altro discorso è perire per un lavoro che - anche se velatamente - richiama "la legge morale dentro di me". La legge di chi si batte per un'ideale, sia esso di pace o di salvaguardia dello status quo.
I soldati italiani si trovano nella zona compresa tra Herat e Kabul, dove il traffico di armi comincia ad essere imponente. La loro missione è di sorveglianza: in lontananza le pecore pascolano nelle vaste distese. Molti bambini qui hanno la leismaniosi, una malattia che in occidente è riservata ai cani. Molti genitori non hanno problemi a riempire un'auto di esplosivo e farla saltare.
"L'Afganistan non può essere lasciata a se stessa, ma non so se in Italia si comprenda il senso della nostra missione", commenta Marco Bertolino, comandante della missione Nato. "In Italia, la nostra missione si capisce sono quando in televisione si sentono i brutti fatti che accadono, altrimenti nessuno se ne rende conto", dice il caporale Michela Martino.
Traspare un senso d'indolenza, quasi stanchezza nel perseverare in una missione più complessa di quanto ci si aspettasse. Ed ora la situazione qui comincia a cambiare: un business che comincia ad svilupparsi, è quello del traffico di droga.
Ricordiamoci del loro lavoro, mentre in televisione osserviamo le salme dei sei soldati caduti.
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