Festival di Venezia 2017, 'Drift': recensione del film

Cinema / Festival / News - 09 September 2017 21:00

L'opera prima della giovane tedesca Helena Wittmann è tra i film scelti per la 32° Settimana internazionale della critica

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Due donne (Theresa George e Josefina Gill) trascorrono un fine settimana insieme in un albergo sulle rive del mare del Nord. Parlano delle previsioni del tempo, passeggiano sulla spiaggia, ricordano il mito di Cipactli, il coccodrillo cosmico dal cui corpo, secondo la mitologia azteca, è nata la terraferma. La telecamera di Helena Wittmann indugia sulle sagome delle due amiche, sulla schiuma delle onde spazzata via dal vento, sul cielo plumbeo.

È solo dopo questo lunghissimo prologo (venti minuti) che sullo schermo compare il titolo del film. La vacanza è finita, una delle due protagoniste decide di tornare dalla famiglia in Argentina. L’altra decide di salire su una barca e andare al largo, di perdersi nell’immensità dell’oceano.

Drift” in inglese vuol dire “andare alla deriva”, ed è proprio questa la principale sensazione trasmessa dal film, anche se forse non con le modalità che aveva in mente la regista tedesca. Lo spettatore si sente abbandonato, mentre il film sembra procedere per inerzia, trainato dall’ambizione di Wittmann di realizzare un’opera di astrazione totale che troppo raramente riesce ad ipnotizzare e a suggestionare come e quanto vorrebbe.

Il problema principale è che, per essere un film che vuole reggersi interamente sulla forza evocativa delle immagini, “Drift” è piuttosto carente nel reparto della potenza visiva. A che pro inquadrare per due interminabili minuti una donna che scrive al computer qualcosa (una mail? un racconto?) che non leggeremo mai? Forse in mano ad un regista dallo sguardo più sicuro e penetrante, mezz’ora di macchina da presa fissa ad inquadrare l’oceano visto da una barca sarebbe risultata significativa, ma la Wittmann troppo spesso non sembra all’altezza degli ambiziosissimi obiettivi che si è preposta.

La regista vorrebbe invitare lo spettatore ad affrontare un’esperienza sensoriale a 360°, una lunghissima apnea in cui i pensieri si disperdono, quel poco di narrazione si dissolve, l’oceano diventa il protagonista assoluto, e le onde diventano il mondo, l’unica cosa che vediamo, l’unica cosa che possiamo contemplare nel loro blu quasi irreale, nel loro non ripetersi mai, nel loro racchiudere cielo e terra. Ma la noia è sempre dietro l’angolo, ed è solo nel finale che la Wittmann sembra trovare l’equazione che ha rincorso invano per tutto il film, quel connubio perfetto tra personaggi umani, acqua, e commento sonoro.

© Riproduzione riservata




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