Intervista a Francesco Fioretti, dal successo de Il libro segreto di Dante alla tensione espressiva di Caravaggio

Comics / Intervista - 06 March 2013 20:27

Francesco Fioretti è autore de “Il quadro segreto di Caravaggio”

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Mauxa ha intervistato Francesco Fioretti, scrittore del romanzo di successo “Il libro segreto di Dante” che nel 2011 ha venduto più di duecentomila copie. Nel 2012 ha pubblicato “Il quadro segreto di Caravaggio” sempre per la Newton Compton. 

Caravaggio in una scena del romanzo “Il quadro segreto di Caravaggio” dice: “Cosa volete dunque, voi che mi accusate di riprodurre nelle mie tele il puzzo dei vicoli in cui ho abitato? E smettetela una buona volta con quella maledetta storia della “realitas”, perché non è di questo, e lo sapete, che si tratta. Se avessi voluto davvero dipingere la realtà, forse avrei dovuto mettere sulla croce il muratore di Bergamo e dei cardinali che so io, di Santa Romana Chiesa, a inchiodarcelo”. L’esigenza di Caravaggio personaggio del romanzo di trasfigurare la realtà è un’esigenza artistica o personale?

Francesco Fioretti. Entrambe le cose. Caravaggio è forse il primo grande artista in cui arte e biografia finiscono per coincidere, il primo che includa se stesso in quadri di genere, rappresentandosi ad esempio in un testimone oculare della cattura di Cristo o del martirio di San Matteo, oppure nella testa recisa di Golia. In più, pur essendo il più grande dei realisti, è, insieme, un sottile simbolista: a partire dalla luce delle sue tele mature, che si carica di fortissime valenze simboliche, ma è al tempo stesso la luce del vero. Così, anche di fronte a scene che ci appaiono del più crudo realismo, l’etichetta del “realista” gli sta stretta, la “realitas” non è mai tutto. Diciamo che è l’ultimo dei platonici, in cui però l’incarnazione dell’idea nella materia si spinge al punto di acquisire una vita del tutto autonoma. Per quanto mi riguarda vorrei imitarlo nell’arte del romanzo, scrivere storie che sono tanto più vere quanto meno lo sono…

La figura di Annuccia, prostituta dipinta da Caravaggio, muove la vicenda del romanzo. Come mai ha scelto questo espediente narrativo?  

F.F. Sono partito dalla vecchia leggenda secondo la quale il Merisi nella Morte della Vergine avrebbe ritratto una prostituta morta. Bassani e Bellini (Caravaggio assassino, Donzelli, 1994) hanno analizzato documenti relativi ad Anna Bianchini, modella di Caravaggio che morì nel 1604, e hanno fornito più d’un appiglio a una simile interpretazione. Il dipinto, poi, è inquietante: se si osservano attentamente i movimenti delle figure sullo sfondo, sembra davvero la scena di un delitto. Trattandosi di un romanzo, che si sia trattato realmente di una faccenda del genere non ha molta importanza. Io non sono uno storico dell’arte, quello che mi premeva era tradurre in forte tensione espressiva le violente emozioni che la pittura di Caravaggio continua a trasmettere, crear loro uno sfondo che ci permetta di riviverle oggi, attraverso un linguaggio narrativo moderno, in tutta la loro inesauribile attualità.

Il linguaggio di Caravaggio è appassionato. Come si è documentato sulla psicologia e sul linguaggio del personaggio?  

F.F. L’ho ricostruito dai verbali dei processi che subì, da quello che raccontavano di lui coloro che lo conobbero e dalle sue deposizioni, sia pur reticenti. Si sa ad esempio che parlava ordinariamente dialetto lombardo, ma da qualche trascrizione delle sue deposizioni sembra affiorare lo sforzo, davanti agli inquirenti, di esprimersi in romanesco. La sua passionalità, oltre che dai documenti, emerge però moltissimo soprattutto dalle sue tele.

Come reputi la moda di scomodare la storia italiana dal ‘300 al \'600 per recenti successi, da \"Il Codice Da Vinci\", al prossimo \"Inferno\" di Dan Brown?

F.F. Dovremmo farlo di più noi italiani, visto che si tratta di valori e tradizioni che ci appartengono. Il fatto che, quanto a cultura, importiamo più di quanto esportiamo è sintomatico del nostro buffo modo di trascurarla adducendo moventi economici. Il fatto poi che ci tocchi “reimportare” Dante e Leonardo da Vinci è il vero segno dei tempi. Che si tratti di mode “popolari” non dovrebbe spaventarci, chiedete ad Ariosto cosa ne pensasse della moda dei poemi cavallereschi o a Dante a proposito di quella, corrente ai suoi tempi, della visione dell’aldilà: semplicemente le cavalcarono e le trascesero al tempo stesso. Fortunatamente \"Il libro segreto di Dante\" è uscito due anni prima di \"Inferno\" di Dan Brown, così, almeno su questo, io ho la coscienza a posto. Io ci ho provato e, se le vendite hanno qualcosa da dirci, è andata anche piuttosto bene: quanto meno, tra l’altro, ho contribuito all’export.

Ne \"Il libro segreto di Dante\" ha fatto in modo che la figlia di Dante, Beatrice, indagasse sulla morte del padre, grazie ad un codice lasciato su nove fogli di pergamena. Come giustifica la presenza del verosimile nel vero storico?

In quel caso è un solo personaggio, l’ex-templare Bernard, a credere di aver trovato la chiave d’accesso a un messaggio in codice nel poema di Dante. La figlia di Dante si limita a ricavarne le istruzioni su dove trovare gli ultimi canti del poema nascosti dal padre prima di morire (secondo la narrazione del Boccaccio). Il fatto però è che, applicando le regole di Bernard, il messaggio cifrato viene fuori davvero dai versi della \"Divina Commedia\". La cosa potrebbe essere casuale, e io stesso non sapevo cosa pensare. A differenza di Dan Brown, tuttavia, non ho voluto costruire alcun teorema su questo che resta comunque un enigma; mi sono limitato ad attribuirne la decifrazione a un personaggio e a lasciare in ombra ciò che tale personaggio crede d’aver trovato alla fine della sua ricerca. In questo modo la verosimiglianza è salva, non si è costretti a pensare che Dante avesse nascosto messaggi segreti nel suo poema, anche se si è indotti a sospettarlo. Il vero storico non ne esce alterato o forzato: e nel finale del romanzo, con la crisi del Trecento, i fallimenti delle banche e la peste, la storia si prende una bella rivincita su Bernard e sul tipo di letteratura che lui in qualche modo rappresenta.

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