Death Stranding, recensione videogame per PS4
Un cast hollywoodiano nel nuovo visionario capolavoro di Hideo Kojima

Un mondo sconvolto da eventi soprannaturali, un labile confine tra vita e morte, lo scorrere inesorabile del tempo ed invisibili passi che lentamente si formano nella terra bagnata, un respiro trattenuto e un feto che brilla nella sacca gialla del protagonista. Death Stranding è un’opera visionaria, dall’immaginario poderoso e alienante, un futuro ormai desolato che incute timore e insicurezza, una paura che traccia le sue linee nascondendosi dietro l’invisibile. Il nuovo gioco di Hideo Kojima, storico game designer della serie Metal Gear Solid, è stato uno dei titoli più discussi e attesi di questa generazione, il primo progetto slegato dai vincoli di Konami e con un cast di attori preso di peso dal mondo di Hollywood. La realizzazione tecnica impeccabile, con un motion-capture di livello indiscutibile, e un gameplay atipico, lento, simulativo, configurano un’opera affascinante e dallo straordinario impatto emotivo.
La trama di Death Stranding è il perno dell’esperienza scritta e diretta da Hideo Kojima che, come da tradizione nei suoi giochi, porta un forte livello di autorialità in ogni dialogo e scelta stilistica, un’opera capace di avvicinare in maniera decisa il medium videoludico a quello del cinema, partendo proprio da un cast di attori di primissimo livello. Se il protagonista ha voce e fattezze (tramite un motion-capture integrale) di Norman Reedus, gli altri personaggi principali rispondono a nomi quali Mads Mikkelsen, Léa Seydoux, Margaret Qualley, Lindsay Wagner e Guillermo del Toro. L’ambientazione cupa e oscura è un mondo post-apocalittico dove le persone sono ormai lontane e separate, dove le città non sono altro che un mero scheletro di ciò che erano un tempo, in un universo sconvolto da un cataclisma che ha portato il mondo dei morti e quello dei vivi a sovrapporsi e convivere in una realtà dai contorni sfumati. Il protagonista Sam (Norman Reedus) sfugge a questo contatto per una rara malattia, una diversità che gli permette di portare avanti una missione utopistica: connettere nuovamente le varie città e ricostruire ciò che resta degli Stati Uniti, sfruttando la rete e l’interazione con altri personaggi e giocatori.Nei trailer circolati sin dall’annuncio di Death Stranding, una delle primissime impressioni del gioco riguardava il gameplay, visto quasi come una sorta di enorme simulatore di corriere, dove il protagonista era impegnato a trasportare carichi e materiali da un punto all’altro della mappa. L’esperienza finale conferma la centralità di tale meccanica, tanto da affibbiare al giocatore una valutazione una volta terminata la missione, che varia a seconda del percorso scelto, al peso trasportato e alla velocità della consegna. Bisogna quindi pianificare attentamente, in un’ottica gestionale e simulativa, ogni aspetto delle nostre spedizioni, che si intrecciano ad un intrigante e innovativo sistema multiplayer asincrono, una feature che connette i vari giocatori attraverso la rete chirale e un sistema di like. Nell’economia di gioco, potenziare l’attrezzatura e modificare l’ambiente, piazzando strutture per le varie sezioni della mappa, si riflette nelle partite di altri giocatori, che possono quindi trovare utile e beneficiare di una nostra azione avvenuta magari ore prima. Tale connessione instaura un contatto tra i vari giocatori, che in un mondo devastato e oscuro si trovano a dover reciprocamente collaborare e aiutarsi per sopravvivere, una grande metafora anche dei nostri giorni. Questa interazione asincrona e a distanza si riflette e trova giustificazione nell’universo scritto da Hideo Kojima: la storia di Death Stranding è quindi la colonna portante del titolo, consegna al giocatore un mondo di gioco perfettamente disegnato così come lo sono i suoi personaggi, è la spinta emotiva che collega le varie fasi di gameplay che, senza un universo così affascinante, rischierebbe di scivolare in un contemplativo, e a tratti noioso, pellegrinaggio.
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