Amos Gitai racconta il film 'Ana Arabia': il confine decrepito intorno a noi

Cinema / Intervista - 17 November 2014 13:00

Amos Gitai al festival Popoli e religioni racconta il film "Ana Arabia". Il film è ambientato in un confine Israeliano, ma anche intorno a noi.

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Al Film Festival Popoli e Religioni di Terni è stato proiettato il film di Amos GitaiAna Arabia”. Lo pellicola era già stata presentata al Festival di Venezia 2013, e per la modalità con cui affronta la tematica dell’integrazione razziale può essere considerato uno dei più innovativi del regista.

Amos Gitai. Alla presentazione doveva anche partecipare lo stesso Amos Gitai, che poi per motivi lavorativi non è potuto intervenire, infatti in settimana sono iniziate le riprese del nuovo film, incentrato sulla figura di Yitzhak Rabin.

Intervista. Il regista Amos Gitai è però intervenuto virtualmente con una videontervista rilasciata l’8 novembre all'organizzazione del Festival. Qui parla della stessa città di Gerusalemme che era anche il fulcro tematico del festival. “Re Davide scelse Gerusalemme come città . Fu poi conquistata dai romani, e tuttora incrocia copti e cattolici”. Il motivo per cui Davide scelse quel luogo aspro per fondare la città era anche di ordine politico: “Davide scelse quel luogo perché non c'erano laghi, fiumi e foci. Non voleva che le popolazioni più potenti sopraffacessero le più deboli”.

Guerra in Israele. Sulla guerra che imperversa a periodi alterni nel territorio israeliano Amos Gitai è risoluto: “La guerra tra le popolazioni è come il litigio che avviene in una coppia. Tutti i vicini possono affacciarsi per esprimere la loro opinione, ma se non si trovano dei punti di contatto è impossibile pervenire ad una soluzione”. Ed è la politica a dovere compiere il primo passo: “E soprattutto i leader devono pensare a risolverlo”.

Trama Ana Arabia. Il film cui abbiamo assistito contiene una novità più formale che contenutistica. La trama è quella di una giornalista, Yael - interpretata da Yuval Scharf - che deve svolgere un servizio su una piccola comunità composta da ebrei e arabi, che vivono insieme al “confine” fra Jaffa e Bat Yam, in Israele. Ci sono tuguri cadenti, in un agrumeto con alberi di limoni circondati da palazzi. Yael interroga pacatamente i personaggi sulle loro vite, e si scopre che un arabo era sposato con un’ebrea, quasi a simboleggiare un’assoluta unità umana che prescinde da quella religiosa. La giornalista quasi si dimentica del suo lavoro, conquistata dalle storie di Youssef e Miriam, Sarah e Walid, dei vicini, amici, tra speranze disincanto.

Recensione. A ben guardare il film, la trama non è poi diversa dalle situazioni che emergono in molti paesi anche italiani, dove l’intolleranza razziale che la cronaca riporta è presente e storicizzata. Soprattutto la decadenza che la giornalista tenta di raccontare, con le case decrepite e la vita spesa a “cercare un lavoro” - così come dice uno dei protagonisti - non è distante dalle situazioni che negli accampamenti rom emergono, e non solo. Quanti hanno perso ciò che avevano, e ciò che desideravano è ormai un ricordo: “lavoravo al peschereccio, ma ormai le barche sono ferme”, dice un protagonista che ora deve fare il meccanico. E la sua vita non è diversa da quella di molti operai che per la chiusa delle fabbriche sono costretti a reinventarsi: basti pensare alla città in cui il festival Popoli e religiose si svolge, Terni afflitta dall'imminente chiusura di due forni dell’acciaieria e i conseguenti licenziamenti.

Amos Gitai filma in maniera cruda con un lungo campo sequenza il racconto, che per ottanta minuti non rappresenta solo il confine di Giaffa ma tutti quelli intorno a noi.

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