Recensione Roma di Alfonso Cuaron, premio Oscar come miglior regista

Cinema / Recensione - 25 February 2019 13:50

Distribuito da Netflix, il film protagonista nella notte degli Oscar 2019.

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Roma si aggiudica tre Premi Oscar: quello per il Miglior film straniero, per la fotografia e Miglior regista ad Alfonso Cuaron. Amato dalla critica, meno dal pubblico, il film prodotto da Participant Media, è stato distribuito da Netflix. Una scelta pragmatica: trattandosi di un film in lingua straniera senza star nel cast, Netflix avrebbe garantito longevità all'opera.

Film Roma
Film Roma

Cuaron scrive, dirige e produce. Ne cura il montaggio e la fotografia. Il montaggio prevede piani sequenza puri o contaminati, scene corali e primi piani, a tratti sospesi, altri aggrappati al presagio di un'epifania palpitante. La fotografia è un bianco e nero di ultima generazione: grazie alla scala di grigi l'effetto finale è fulgente, affatto nostalgico.
In Roma ogni sequenza sublima un'emozione. Il miracolo della vita sta nella curiosità di avventurarsi, nella capacità imperfetta di amare e accogliere l'altro in sé. E di ripartire dai drammi.
Cuaron ha raccontato di aver realizzato questo film per tornare con la memoria alla sua infanzia, scoprendo luoghi di appartenenza distanti. L'esigenza è quella di leggere il passato con la prospettiva del presente. Cos'è cambiato?

Colonia Roma è il quartiere benestante di Città del Messico, in cui vive la famiglia di Cuaron. La casa è grande. Cleo (Yalitza Aparicio, candidata come Miglior attrice protagonista) si occupa delle faccende e dei tre bambini. Il film è dedicato a questa bambinaia di origine mixteca, di fatto la seconda mamma per il regista.

Il realismo magico si preannuncia nei trickster delle vivaci vie del centro o nella meraviglia del cinematografico. Ma anche, in chiave umoristica, nelle feci del cane che fungono come una sorta di pozione, capace di esasperare le visite di un marito fedifrago e promuovere la rinascita di una famiglia allargata. È Cleo, questa figura tra terra e cielo, il testimonial del realismo magico di Cuaron.

Cleo è in ospedale quando il terremoto fa piovere i calcinacci sopra l'incubatrice; fallisce maldestramente un brindisi di buon auspicio; osserva le fiamme di un Capodanno che preannunciano il massacro del Corpus Christi, quando la manifestazione pacifica degli studenti finisce nel sangue per mano dei paramilitari Los Halcones. Tutti altrettanti presagi funesti, interpretati come se la tata fosse dotata di una saggezza millenaria.

Cuaron mette in scena una quotidianità famigliare fatta di madri in difficoltà, giovani figli coraggiosi, nonne di ferro. Agli uomini deboli, di cuore e di mente, corrisponde un correlativo oggettivo ironico: la cacca del cane che evacua straordinariamente in concomitanza con la visita del capofamiglia; o i gioielli di famiglia di Firmin, ossessionato dalle arti marziali e da Bruce Lee, perché è con quelli che pateticamente ragiona.

Alla fine dei titoli di coda compare la preghiera “Shantih Shantih Shantih”, già citata da T. S. Eliot in La terra desolata: traduce una condizione raggiunta di pace assoluta, essenziale per vivere il "qui e ora" in perfetta armonia.  È il correlativo magico-oggettivo dedicato a Cleo.


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