Recensione del film Elle

Cinema / Recensione - 23 March 2017 07:30

Paul Verhoeven dirige il film "Elle" interpretato da Isabelle Huppert.

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Elle è il film di Paul Verhoeven con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny e Charles Berling (leggi l'articolo sull'incontro con il regista).

Paul Verhoeven mostra la propria chiarezza già all’inizi del film, con lo schermo nero invaso dalle urla di Michèle, mentre viene violentata sul pavimento di casa. L’aggressore ha un passamontagna, compiuto il reato fugge. La donna resta immobile, fa una telefonata in farmacia, poi torna al lavoro.

La sua determinatezza è la medesima che trasmette nella gestione dell’azienda, da manager di una società che sviluppa videogiochi. Ma le intemperie di quel reato ritornano presto, il videogioco cui il team sta lavorando “deve essere più violento”, impone lei. Quasi a ribadire un’esigenza dell’odierna civiltà, e gli echi della violenza.

Nega anche al figlio Vincent (Jonas Bloquet): “Cosa ti sei fatta qui?”, chiede lui: “Sono caduta dalla bicicletta”.

Michèle confida infine l’accaduto all’ex marito Patrick (Charles Berling) e alla collega Anna (Anne Consigny), pur se a cena è presente anche il marito di questa, Robert (Christian Berkel) con cui Michèle ha una relazione.

Emerge quindi uno dei temi di Verhoeven, quello della possibilità di mentire senza esserne coscienti, o fingendo in maniera eclatante. Anche nel suo film “Basic Instinct” (1992) la scrittrice Catherine Tramell espone le sue trasgressioni al detective Nick Curran, tanto che potrebbe essere anche un’assassina.

E la stessa Michèle di “Elle” si avvicina a diventare da vittima a colpevole: comincia a sospettare del vicino di casa, il mite Patrick (Laurent Lafitte) ma poi lo fa entrare in casa. Lo invita con la moglie alla festa di Natale, lo seduce con il piede sotto il tavolo, oppure lo spia con il binocolo e si eccita mentre lo guarda. Il limite tra lecito e impudicizia non esiste in questo film, facendo emergere anche una disparità presente nella psiche umana. Lo stesso detective Nick Curran in “Basic Instinct” s’innamora della presunta colpevole Catherine.

Fino a quanto siamo razionali? E sopratutto il dubbio che il film pone è se non occorra vedere dentro ciò che ci fa più male, per comprendere come migliorare. Ecco quindi che l’impudicizia diventa in realtà un asso necessario verso la guarigione. Se si cerca di evitare un aspetto del proprio carattere, è proprio lì che occorre guardare in fondo. È questo l’unico modo per crescere, come fa Michèle quando scopre chi sia il colpevole dell’aggressione e anziché scansarlo lo avvicina, gli telefona anche dopo un incidente stradale per farsi aiutare.

Tutto il cast del film crea un vortice corale che fa centro su di lei. Solo Isabelle Huppert poteva interpretare questo ruolo: ne è la riprova il fatto che attrici statunitensi cui fu offerto la parte hanno rifiutato. L’attrice ammirò il libro “Oh…” di Philippe Djian da cui è tratto, e volle realizzarne un film. La violenza delle scene con cui fa immedesimare lo spettatore è spesso ardua da sopportare: dai tradimenti dei colleghi in ufficio, al silenzio del suo gatto, dall’odio e amore per la madre anziana all’obbrobrio per il delitto che il padre commise decenni prima.

E da qui entra un nuovo dubbio, che Verhoeven lascia in sospeso: siamo figli degli errori dei genitori. La risposta è nel finale del film, in ciò che Michèle snoda per il figlio.

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