Recensione del film Burden, l'opera sull'arte pericolosa acclamata dalla critica

Cinema / Recensione - 30 May 2017 08:00

"Burden" è il film che racconta la storia dell'artista Chris Burden.

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Abbiamo visto “Burden”, il film biografico acclamato dalla critica, diretto da Richard Dewey e Timothy Marrinan e attualmente nelle sale statunitensi e in digital download. È un ritratto spudorato su Chris Burden, artista che ha espresso la creatività nei limiti delle possibilità umane, mettendosi lui stesso in pericolo.

Burden - scomparso nel 2015 - ha creato un’arte pericolosa, tanto che in “Trans-fixed” si è crocifisso sulla parte posteriore di un’automobile a Venezia, emulando la morte di Cristo. In un’altra performance si è confinato in un armadietto per cinque giorni ad Irvine. In un altro caso era seduto senza abiti in un museo, circondato da fiamme. Ciò è accaduto negli anni ’70 e ‘80, divenendo uno dei simboli più fotografati e iconici di Los Angeles. In “Shot” l'artista è stato colpito con un fucile da un amico, e l'evento è stato fotografato.

In seguito la sua arte è divenuta spettacolare, nel senso di creare scalpore: in “Urban Light” (2008) ha creato un complesso di lampioni antichi illuminati, di dimensioni diverse al di fuori del Los Angeles County Museum of Art, e le persone potevano entrare nell’opera.

Una sua opera è stata venduta per 3 milioni di dollari, e i registi Timothy Marrinan e Richard Dewey nel film "Burden" mostrano proprio come le sue creazioni siano sempre state contraddistinte dalla concretezza, tanto da raccontare anche la società degli ultimi decenni. Lo fa con materiali video rari, interviste agli artisti Marina Abramovic, Vito Acconci, Larry Bell, Billy Al Benston, Bruce Dunlap.

Se una delle donne che si è prestata ad una performance stava per essere sgozzata, ora la vediamo essere intervistata, fiera delle possibilità che ha offerto a quest’arte.

In un’altra performance Burden si posiziona accanto ad una lastra di cemento, sopra cui c’è una gru che fa cadere dei pilastri di metallo che si conficcano nella sostanza, con il pericolo che colpiscano lo stesso Burden.

Forse l’opera più perfetta è “Metropolis II” (2011): delle macchinine sfrecciano sopra strade di plastica, soprastanti dei modellini di edifici. Ci sono sei corsie, con auto che corrono a 240 miglia all’ora e quando le vetture raggiungere il fondo, si alzano con tre nastri trasportatori. Questa opera è stata mostrata al Los Angeles Country Museum e acquistata dal magnate Nicolas Berggruen , e già nel titolo rievoca il film di Fritz Lang del 1927, ma reso più pauroso dalla contemporaneità.

In “What My Dad Gave Me” (2008) le parti di un meccano di metallo compongono una torre alta venti metri, e posizionata per un anno al Rockefeller Center.

È la curiosità nel mostrare le opere di Burden che ha sancito il successo del documentario, che la critica ha definito capace di far comprendere un artista innovativo (The Hollywood Reporter), che ha sempre cercato una ricerca sincera nel suo modo di essere costruttore di incantesimi (Los Angeles Times), “complesso, misterioso ma vincente” (Variety). Per il The Guardian il film racconta come Burden abbia avuto forse solo una colpa, ossia quella di essere troppo diretto: ma ciò si è poi reso necessario.

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