Pinocchio di Collodi, una trama che insegna a sbagliare per crescere

Daily / Editoriali - 25 December 2011 08:46

Dalla versione per iPad all'ebook

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Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1881) di Carlo Collodi riporta la fatica dell’uomo nell’emanciparsi dalla propria immobilità, con le difficoltà che si affrontano per sbagliare e poi convertirsi.

L’applicazione per iPad del 2011 è considerata una delle migliori dell’anno (pubblicata anche in Francia); la serie tv C’era una volta (Once Upon a Time), che ha ottenuto ottimo successo mescola varie favole, con Geppetto e Pinocchio che grazie ad un armadio nato da un albero magico permettono di fuggire dalla maledizione della Regina; nel gennaio 2012 è uscito il terzo numero del fumetto horror Pinocchio, Vampire Slayer: Of Wood and Blood; nel 2019 la Disney inizierà le riprese del film live-action, con Paul King (Paddington 1 e 2) scelto come regista e Chris Weitz (Rogue One: A Star Wars Story) sceneggiatore, con riprese che avverranno in Inghilterra e in Italia.


Film Pinocchio

Pinocchio odia regole imposte: “Vi prometto (…) che da oggi in poi sarò buono – dice mentendo a Geppetto - anderò a scuola, studierò e mi farò onore... (…) io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia”.

Pinocchio si fida di quell’amico che poi ti tradisce: “Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore... – dice alla Marmottina - ma Lucignolo mi disse: «Perché vuoi annoiarti a studiare? Perché vuoi andare alla scuola? Vieni piuttosto con me, nel Paese dei Balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri». (…) io sono un burattino senza giudizio... e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore (…) se incontro Lucignolo voglio dire un sacco e una sporta!”

Pinocchio crede ad una promessa, per cui ci si impegna scoprendo però che si trattava di un escamotage per essere truffati: “Sappi dunque che, mentre tu eri in città – dice il Pappagallo - la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo!”. Pinocchio è deluso: “Pinocchio restò a bocca aperta (…) cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più”.


E poi fugge, come quando si finisce in una situazione di perdizione e si crede che qualcuno ci stai cercando, mentre il tempo del ricordo sovrasta quello della ricerca e lentamente si finisce nel dimenticatoio (Geppetto che nel pescecane non si danna per cercare il suo figliolo): “Ti riconobbi anch’io, – dice Geppetto, – e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pescecane (…) m’inghiottì come un tortellino di Bologna. (…) saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!”.

Alla fine una forza superiore ci conduce alla salvezza, una crescita che si temeva perduta e che invece è concessa, rappacificandosi con il proprio passato: “Bravo Pinocchio! – dice la Fata Turchina - In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. (…) Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice”.

E la salvezza finale non poteva che giungere, nonostante Collodi l’avesse evitata. Lo scrittore, non potendone più di questo burattino che viveva sulle pagine del quotidiano Giornale per i bambini, decise di farlo morire impiccato ad un albero: “Gli legarono le mani dietro le spalle e passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande. (…) e balbettò quasi moribondo – Oh babbo mio! se tu fossi qui!... E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”. I lettori non accettarono la morte, Collodi non poteva rompere l’ordine in questa maniera, lo fece vivere facendo giungere il Falco che sciolse il nodo. Ecco quindi la versione che giunge al film della Disney nel 1940, con l’omonima pellicola di Hamilton Luske e Ben Sharpsteen. Il film – con 84,254,167 dollari d’incasso - è stato inserito tra i migliori 25 film d’animazione di sempre, pur rappresentando “le aspirazioni di un popolo in un determinato periodo della sua storia” (Gianni Rondolino, Storia del cinema, Utet, 1988, p. 295), consegnandolo all’immaginario collettivo con atteggiamenti che esulavano da quello presente nel romanzo del 1881.

Pinocchio i regali preferiva farli piuttosto che riceverne: “Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, - dice al Gatto e la Volpe - ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due”. E anche la versione rimescolata della Fox di C’era una volta ha permesso di scovarne le trame. Bene se ne accorge il linguista Cesare Segre che nota come per “l’invenzione della balena che divora l’eroe si può seguire una trafila che va dalla Storia vera di Luciano ai Cinque canti dell’Ariosto (IV) al Pinocchio” interpretando il tutto con “la storia biblica di Giona, e con i simboli che ad essa si ineriscono (morte e resurrezione; peccato e pentimento)” (in Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, 1985, p. 90).

Una regola vuole che per crescere occorra sbagliare, una regola che il cattolicesimo e un rigore morale tenderebbe ad eliminare. Ma che Pinocchio urla a gran voce: “Com’ero buffo, quand’ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!...


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