Venezia 73: Spira Mirabilis, recensione dell'incontro emblematico tra naturale ed artificiale
Massimo D'Anolfi e Martina Parenti propongono al pubblico del Festival del Cinema di Venezia 2016 un film dal taglio documentaristico che pone in aperto contrasto la natura e l'artificialità, p
Il lungometraggio Spira mirabilis cattura elementi, storie, racconti e leggende, oltre a documentati archivi, per dare vita ad un collage di assonanze visive e simboliche firmato Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.
«Simbolo di perfezione e di infinito, “la spirale meravigliosa” o “spira mirabilis”, come venne chiamata dal matematico Jackob Bernoulli, rappresenta una spirale logaritmica il cui raggio cresce ruotando e la cui curva si avvolge intorno al polo senza però raggiungerlo mai», questa la definizione del modello di spirale che dà il nome al progetto, questo il divario esistente tra mondo naturale e mondo artificiale, divario che può assottigliarsi, ma mai essere colmato del tutto.
Spira mirabilis accosta diverse immagini in movimento, ognuna esprimente un’azione, dando vita ad un collage di cause ed effetti che strizza l’occhio alla forma documentario, ma vuole essere un esperimento visivo affiancato al lungometraggio. Offrendo al pubblico un montaggio operando un’accurata ricerca di spazi e di tempi, di azioni e di reazioni, Martina Parenti e Massimo D’Anolfi hanno girato a quattro mani in diversi luoghi del globo terrestre per esprimere ed immortale antichi mestieri propri dell’essere umano, così come costruzioni artificiali, posti accanto a ciò che di più naturale il mondo abbia da offrire, quali i canonici quattro elementi: acqua, fuoco, terra ed aria.
Attraverso l’utilizzo di innovative lenti microscopiche, i due registi posizionano la macchina da presa in modo da operare ricerche osservando ciò che fino a poco fa era quasi considerato inosservabile, svelando associazioni e confronti finora rimasti disconnessi tra loro. E allora echi tra i boschi accompagnano fragorose demolizioni, mettendo in collegamento in sequenza, attraverso semplici operazioni di montaggio, il ripetitivo crollo di fitti alberi facenti parte di una foresta con l’altrettanto ripetitivo crollo di mura artificiali, stabilendo il contrasto tra uomo e natura, cercando di edificare una porta comunicante tra i due mondi opposti.
Oltre alla materialità tangibile e concreta dell’elemento terra, quello che risalta subito all’occhio è il continuo accostamento di flussi di diverso tipo, dall’aria che si percepisce sotto forma di suono e movimento, all’acqua, che scorre incessantemente e limpidamente. E se la condizione umana non riesce a coprire il divario esistente tra essere umano stesso e natura circostante, natura capace di inglobarlo nella sua perfezione, allora compaiono statue inanimate, più precisamente le statue accolte nel Duomo di Milano, e la condizione umana è sancita: immobile di fronte al caos imposto dall’artificialità, l’uomo non può far altro che essere testimone della sua esistenza perché, come indicato esplicitamente da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, l’uomo non è altro che un ospite passeggero della natura.
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