Recensione film I sogni segreti di Walter Mitty, la sfida vinta di Ben Stiller
I sogni segreti di Walter Mitty: le prime recensioni del film di Ben Stiilelr sono contrastanti. Ma non comprendono appieno la novità stilistica del regista Stiller e soprattutto di un modo di

I sogni segreti di Walter Mitty (“The secret life of Walter Mitty”) è il film con cui Ben Stiller torna alla regia dopo “Tropic Thunder” (2008). Nel cast ci sono lo stesso Stiller, Kristen Wiig, Shirley MacLaine, Adam Scott, Kathryn Hahn e Sean Penn.
La trama segue le vicenda del dipendente di Life Magazine Walter Mitty, addetto alla conservazione dei negativi. In sedici anni di carriera non perse mai un negativo, ma ora il fotogramma numero 25 pare dissolto. Così l\'obiettivo di Walter è ritrovarlo, pur se nelle sue ricerche ha un antagonista inaspettato, ossia i propri sogni.
Walter infatti ambisce ad una vita ulteriore, fatta di capacità di estraniarsi dalla realtà, tanto da immaginarsi in situazioni estreme, cosicché possa assolvere alla sua funzione di eroe. È al lavoro e vede la donna di cui è infatuato Cheryl Melhoff: allora immagina che il soffitto crolli e lui arrivi da montagne innevate con l\'obiettivo di salvarla. Aspetta la metropolitana: immagina che il palazzo dietro di lui stia incendiando cosicché possa tuffarsi nell’edificio e salvare la cagnolina in pericolo di Cheryl.
Queste intermittenze della sua vita non lo distolgono però dall\'obiettivo, ossia trovare il fotografo Sean O\'Connell che possa restituirgli una copia del negativo numero 25.
La pellicola ambiziosa di Ben Stiller tenta di creare una nuova visione della cinematografia americana, fatta di sogni che possano permetterci di evadere dalla quotidianità. E se il progetto era in lavorazione dal 1994 e solo ora è riuscito a trovare una collocazione è segno che il regista e il produttore Samuel Goldwyn sono riusciti ad intercettare un’esigenza dello spettatore odierno, ossia di non relegare i messaggi salvifici ad esseri superiori come quelli presenti in “The Hobbit” o in “The Hunger Games” bensì nelle nostre stesse volontà.
Il film è tratto da un’opera breve di James Thurber, “The Secret Life of Walter Mitty” del 1939 in cui il protagonista vola con la mente tra missioni della US Navy, una sala operatoria in qualità di chirurgo, un tribunale come testimonia contro un assassino, una missione suicida come pilota del Royal Air Force, un plotone di esecuzione. Già nel 1947 Norman Z. McLeod diresse un film tratto dal racconto, però ossequioso verso il testo. E la produzione allora era dello stesso Samuel Goldwyn Senior, di cui oggi il figlio e il nipote tentano una riproposizione dei fasti. Il film doveva essere realizzato appunto nel 1994 con Jim Carrey, e negli anni passò a Ron Howard, Steven Spielberg, Sacha Baron Cohen e Gore Verbinski. Alla fine fu la sceneggiatura di Steven Conrad, già autore de “La ricerca della felicità” ad esprimer il giusto connubio tra realismo e onirismo non relegato a gag.
Ben Stiller ha saputo usare la sceneggiatura in maniera ottimale, soprattutto riflettendo un’inquietudine attuale nel desiderio di Walter di fantsticare. Il sogno di Walter è quello quotidiano di ognuno di noi, che mentre ci assale ci fa dimenticare che dovevamo prendere la metropolitana. Un sogno che certamente rende fragili ma che è l’unico rimedio reale ad un pessimismo imperante, cui lo stesso Walter non vuol sottomettersi. Così come non vuol soggiacere al nuovo manager dell’azienda, Ted Hendricks che lo ridicolizza e rappresenta lo svilimento della sua personalità.
Il medesimo stile di regia evidenzia questa nuova maturità di Stiller regista, fatta di rese di distanza quasi bergmaniane nel momento cui cui Walter è immerso nei suoi sogni. Infatti il regista Stiller mentre inquadra il protagonista Walter, spesso con la telecamera si allontana, quasi a disconoscere il suo operato. Nemmeno Stiller sa se sia giusto e meno affrontare questo percorso ma raccontarlo implica già una sfida. Senza considerare che in un film così complicato Stiller è sia il detentore della sua morale in quanto regista, che vittima in quanto attore.
La medesima fotografia di Stuart Dryburgh rende appieno la differenza tra realismo e visionarietà, così come la musica multicolore di Theodore Shapiro. Non a caso Stiller ha confessato di voler girare il prossimo filma Roma, perché gli ricorda un film onirico come “La dolce vita”.
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