Recensione del film Maria per Roma

Cinema / Recensione - 07 June 2017 08:00

Karen Di Porto è regista e interprete di "Maria per Roma", film sugli aneddoti nella capitale.

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Maria per Roma è un film di Karen Di Porto con Andrea Planamente, Bruno Pavoncello, Mia Benedetta.

Il racconto esordisce con una donna a letto con un cagnolino, momenti quotidiani che fanno emergere la genuinità della trama.

Con il suo cane Maria (Karen Di Porto) va in Vespa, procede in una città che di morettiano non ha più nulla, in bilico tra quartieri opulenti e povertà dirompente: un amico per vivere si veste da Gesù, ci si arrabatta affittando appartamenti a settimana.

Un contrasto che Karen Di Porto sa sintetizzare: “Se siete stati bene ti richiamerà”, dice Maria al telefono ad un’amica. “Del provino non mi hanno fatto sapere niente ancora”, conclude mostrando così anche le possibilità che la città offre ma che comprime.

Maria e Bea - così si chiama il cane - incontrano personaggi eterogenei, dai quattro amici cui lei affitta un appartamento a Campo de’ Fiori e che poi sono insoddisfatti, alla compagnia teatrale con cui collabora.

Una giornata comune, resa particolare dal luogo in cui si svolge: etnie, turisti, lavori che alternano creatività a piccolo business: “‘sti nobili so’ strani. Deve anna’ tutto liscio”, implora l’agente che si occupa dell’affitto degli appartamenti. Poi Maria incontra la madre, che vorrebbe si trovasse una sistemazione con un uomo. Il tutto mentre il cane è visitato da veterinario che ordina che non deve subire “stress”.

Durante il colloquio con un amico regista che vorrebbe girare una scena con lei, Maria riceve una telefonata per cui deve accompagnare dei turisti al nuovo appartamento. Il caos mentale della protagonista è lo stesso di chiunque debba arrabattarsi tra vari lavori, impegni e obbiettivi che poi inevitabilmente si annientano a vicenda.

“Maria per Roma” gode di una semplicità della messa in scena, un film tutto girato con macchina da presa a spalla, senza scenografie se non quelle di Roma. Diventa così anche l’emblema di una difficoltà di destreggiarsi in una giungla, che non solo è quella lavorativa, ma anche quella delle piccole sopportazioni cui si è costretti. Queste intemperanze portano poi ad agire in maniera sconclusionata, tanto che poi le persone possono dire di Maria: “è pazza”.

Il film nel finale risulta ripetitivo, forse perché non riesce a gestire una trama narrativa che esuli da quella documentaristica: si sfocia infatti nella semplificata critica al sistema dello spettacolo, tra falsi provini e figure losche. Così rischia di divenire un racconto ripetitivo di aneddoti. Ma l’ispirazione del film è vera e anche graffiante.

© Riproduzione riservata




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