Intervista ad Agostino Ferrente, 'Le cose belle' è il nuovo film documentario

Cinema / Intervista - 02 July 2014 12:54

Agostino Ferrente risponde alle domande di Mauxa.com per la rubrica "Di che cultura sei?"

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Agostino Ferrente è il regista del documentario “Le cose belle”, diretto assieme a Giovanni Piperno.

D. Con il tuo documentario "Le cose belle" affronti varie figure della realtà napoletana, e poi torni a rivisitarle dopo 10 anni. Come mai questa scelta di salto temporale?
R. Nel 1999 io e il mio co-regista Giovanni Piperno realizzammo un documentario per Rai tre intitolato “Intervista a mia madre”. Nel film abbiamo raccontato la vita di due ragazzi dodicenni e due ragazze quattordicenni e del loro rapporto con le proprie famiglie e principalmente con le mamme. Li filmammo in quella fase della vita in cui gli occhi brillano di una luce speciale e in una città, Napoli, dove tutto sembrava più forte: la violenza, le speranze, l’energia, la sensualità, la rassegnazione. La relazione tra noi e loro fu improvvisa, straordinaria e intensissima. Inoltre li incontrammo in un periodo storico in cui la città sembrava guardare al futuro con ritrovata fiducia. E anche loro, Adele, Enzo, Fabio e Silvana, seppur armati di scaramantico disincanto, covavano legittime attese verso i giorni a venire. Di fatto tentammo di usare quel periodo per renderli più consapevoli della loro condizione esistenziale e, dove possibile, dare una mano nelle loro vite difficili.

D. Quindi è stato anche un lavoro sociologico?
R. Sì. Le quattro settimane di ripresa dedicate nel ’99 a quelle quattro vite ci sono sempre sembrate piuttosto poche e da allora ci è sempre rimasto il desiderio di poter approfondire di più. Anche perché quando si filma la vita di una persona, il rapporto che si crea tra chi filma e chi è filmato è essenziale. Ognuno mette se stesso nelle mani dell’altro: il regista mette il suo film nelle mani dei suoi protagonisti e questi affidano al regista il racconto di una parte delle loro vite. Si crea un forte legame, diverso, forse, dall’amicizia o dall’amore, ma non meno profondo: per realizzare un documentario è necessaria una fiducia reciproca assoluta… Nel rispetto di tale fiducia che si era creata e che ci aveva legato indissolubilmente a loro, non abbiamo mai interrotto il legame. Anche dopo che “Intervista a mia madre” ebbe un bel successo, vincendo premi ed essendo trasmesso in tv in prima serata con record d’ascolto per un prodotto del genere. Anzi, forse anche alla luce di questo crebbe in noi la sensazione di aver avuto una qualche responsabilità nel destino di questi ragazzi diventati adulti. Pur avendo provato, nel tempo, ad aiutarli concretamente, il senso d’impotenza ci ha spinto a tornare a cercarli ancora, dieci anni esatti dopo per provare a concedere a loro e a noi stessi una seconda possibilità

D. Dal tuo documentario precedente "L'orchestra di Piazza Vittorio" dai molta importanza alla componente musicale del film. Come mai?
R. La musica secondo me è l’arte perfetta. Un film lo vedi, e se anche ti piace un sacco, poi lo rivedi tempo dopo. Una canzone puoi ascoltarla e riascoltarla di seguito, all’infinito. La musica è impalpabile, è come gli odori. Ti entra dentro, e la colleghi ad un’emozione provata in un periodo della tua vita e diventa la colonna sonora di quel ricordo. Io poi con la musica ho un rapporto d’amore, ma non corrisposto: io amo lei, lei non ama me… Sono stonato come una campana! E allora, come diceva il poeta, il mio è il vero amore eterno, quello non corrisposto, dove io continuo a corteggiarla.. Da bambino sognavo di fare il cantante, mentre però a scuola durante la lezione di musica nel coro c’era sempre una voce stonata che era la mia. E’ come se col cinema mi concedessi una “second life” dove invece questo amore impossibile trova finalmente il suo trionfo. Io non la so creare, ma accoppiandola alle immagine è come se la facessi nascere una seconda volt: e non cerco di non usarla mai solo come componente “decorativa”, ma cerco sempre di trasformarla in un elemento narrativo.

D. Qual è il film che più ti ha influenzato e perché?
R. “Luci della città” di Charlie Chaplin.

D. Qual è il tuo libro preferito e ti ricordi dove lo hai letto?
R. Non saprei dirti se e quale sia il preferito. Tralasciando i classici, tra i romanzi contemporanei ho amato molto “Limonov”, di Emmanuel Carrère, che ho letto mentre con la mia compagna viaggiavo in treno tra Russia, Bielorussia e Ucraina, poco prima che lì scoppiasse il casino.

D. Qual è il tuo cantante e album preferito e perché?
R. Non ho un cantante preferito, ma degli album o delle singole canzoni. E i miei gusti sono molto proletari. Posso amare tanto “The wall” dei Pink Floyd (ho avuto anche la fortuna di lavorare con Bob Elzin, uno dei produttori) che “La vita è adesso” di Claudio Baglioni, che ascoltavo nel passaggio alle soglie dell’adolescenza e ne conservo un ricordo dolcissimo. E posso amare Franco Battiato e Francesco Guccini, “La canzone delle domande consuete” mi fa rizzare i peli delle braccia, come pure posso amare canzoni che di solito chi ama si vergogna di ammettere, tipo “Solo noi” di Toto Cutugno, “Meravigliosamente” dei Cugini di campagna, “Luna” di Gianni Togni, e ovviamente “Noi siamo figli delle stelle” di Alain Sorrenti. Un’altra che adoro è “A mano a mano” di Riccardo Cocciante. E tralascio tutto Fabrizio De Andrè e Vasco Rossi.

D. Qual è il tuo prossimo progetto?
R. Sto lavorando ad un documentario realizzato insieme ad Oreste Crisostomi nel carcere di Terni. Non è un film sui detenuti ma fatto con i detenuti: a cinque di loro stiamo insegnando ad usare la telecamera… In un certo senso è un “film di evasione”.

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