Intervista a Giovanni Cioni regista di Per Ulisse, film documentario

Cinema / Intervista - 21 September 2014 08:00

Con il documentario Per Ulisse, Giovanni Cioni ha vinto il 54° Festival dei Popoli di Firenze, ed è stato selezionato in vari festival internazionali, come al Visions du Reel di Nyon. Tra i

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Mauxa intervista Giovanni Cioni, regista del documentario “Per Ulisse”, film vincitore del 54° Festival dei Popoli di Firenze. Mentre da Giovedì 25 settembre il documentario sarà proiettato al Nuovo Cinema Aquila di Roma – e la premiere sarà accompagnata dalla presenza del registra – il cinema Babylon di Berlino, dal 21 settembre 2014, dedica una tre giorni all'autore Giovanni Cioni proiettando tre suoi documentari: “Nous Autres” (2003), “In purgatorio” (2009) e “Per Ulisse” (2013)

Il documentario Per Ulisse non è solo il ritratto del Progetto Ponterosso, il centro di socializzazione di Firenze set delle riprese, ne esclusivamente il racconto delle storie di vita dei residenti, protagonisti del documentario. Perno della struttura del film è infatti l'arte di “raccontare”, performance che da dignità e diritto di cittadinanza ai protagonisti e alle loro storie. In questo senso, se il passato ha esistenza autonoma nei nostri ricordi, raccontarlo, la narrazione della propria vita è possibile solo all'interno di uno spazio del racconto, e prende forma soltanto in un incontro interpersonale tra chi parla e chi ascolta, entrambi sostanzialmente veri e propri coautori. “Per Ulisse” sembra muovere da questa premessa, per approdare alla costruzione di uno spazio poetico creativo, uno spazio di finzione (che ovviamente non vuol dire falso, non vero) che permette ai protagonisti (e allo spettatore) di passare dalla concezione della memoria come magazzino di ricordi alla memoria come matrice di significati, come ciò che serve per dare senso e ordine alla propria esistenza. Uno spazio dove i protagonisti di “Per Ulisse” sono si attori, ma che interpretano se stessi

L'intervista a Giovanni Cioni regista del documentario “Per Ulisse”

D - Quando hai pensato di fare questo documentario? Sei stato più stimolato dai tuoi protagonisti o avevi già un'idea in mente e hai trovato le persone adatte con cui condividerla?
R - Io non ho mai un'idea in mente di un film che voglio fare. So che voglio fare un film con queste persone, in questo luogo. So che faccio il film per capire perché sono stato portato a farlo. Per arrivare a definire quella che è l'intuizione che mi muove. Oppure ho un'idea ma che pare sempre irraggiungibile, impossibile. Un'utopia. Stranamente nella dialettica dell'elaborazione del film, del cammino che non c'era ma che ti inventi camminando riesco a ritrovare nella casualità degli incontri, delle cose imprevedibili che nascono, che magari suscito, proprio quell'utopia ... mi affido a questa buona stella. Al Ponterosso sono venuto, invitato da Stefano Sarri, il suo ideatore, che è scomparso lo scorso giugno, e a cui devo molto, per l'ispirazione del film. Stefano aveva organizzato un Festival del disagio. Era nel settembre 2006. Mi aveva chiesto di fare delle specie di provini. Abbiamo pensato a qualcosa sul tema “Chi sta peggio di me”. Chiedere ad ognuno di pensare a qualcuno che possa stare peggio ... una forma ludica per parlare del disagio. Io ho capito subito che avrei fatto un film lì, con quelle persone, con quegli sguardi di chi torna da lontano. Non sapevo che film avrei fatto e lo dicevo. Dicevo che non sarebbe un film documentario su di loro, sul centro. Volevo inventarlo con loro, non sapevo come, poi pensai a colui che è scomparso, che non torna più, che affronta la morte, i mostri, le intemperie, che torna nudo, naufrago, irriconoscibile, invisibile. Ulisse

D - Qual è la caratteristica principale per entrare in empatia con i tuoi attori, e coinvolgere persone da un passato spesso tanto duro e difficile, in un'esperienza del genere?
R - Potrei rispondere il tempo, il tempo passato insieme, serate e mesi, a parlare, giocare a carte, partecipare alla vita del centro, filmare le feste ... io mi raccontavo molto, questo fa parte dello scambio. Chi ero, cosa facevo. Nei primi anni stavo girando e montando “In Purgatorio”, sono venuti all'anteprima al Festival dei Popoli nel 2009. Ho girato anche un film di matrimonio di uno di loro. Potrei anche rispondere che era il fatto di non fare domande. Non ho mai chiesto qual'era il loro percorso, perché erano finiti lì – salvo se me lo raccontavano. Non facevo domande, non mi ponevo come qualcuno che pone uno sguardo su di loro. Via via che immaginavo qualcosa, giravo, e montavo, e mostravo e questo dava nuove idee al progetto. Il film si è veramente sviluppato con le prime prove, un sopralluogo a San Salvi, l'ex-ospedale psichiatrico di Firenze, per un racconto di Silvia, una delle protagoniste. Ho montato le immagini, le ho mostrate, e questo ha dato il tono del film da farsi

D - Da un punto di vista tecnico, come è stato realizzato “Per Ulisse”? Quanto tempo hai passato a filmare i residenti del centro, e da quante persone era composta la tua troupe? Le scelte tecniche sono state fatte in base al rapporto di intimità con i protagonisti o più orientate al risultato visivo finale del documentario?
R - Era difficile per me immaginare una troupe – ho iniziato senza avere un progetto chiaro, era una ricerca, un'intuizione dunque non avevo produzione. Per cui ho iniziato da solo e ho proseguito su questa modalità. Ho portato il fonico, Saverio Damiani, qualche volta. Ma c'era anche un altro aspetto. Anche se avevo scritto e immaginato molto, e previsto le cose da girare, succedevano dei giorni in cui, come si dice, non era il caso – e magari c'era qualcos'altro che succedeva. Non potevo immaginare una troupe a disposizione in queste condizioni dove le riprese erano molto intuitive, imprevedibili. Sono scelte di realizzazione,in cui conta l'intimità con i protagonisti, ma anche un modo di creare uno spazio dell'immagine, faccio un tipo di inquadrature dove mi racconto una storia di quello che sto girando, nella quale entrano le persone. Inquadro in maniera intuitiva. Spesso inquadravo qualcosa nello spazio dove stavamo, le foglie di un albero, un'ombra, e da lì nasceva la scena. Ho passato molto tempo, anni, e continuo a frequentare il Ponterosso, come una famiglia a cui sono ormai legato. Ma ho girato poco, relativamente al tempo. Una trentina d'ore, nemmeno. La maggior parte del tempo di realizzazione è stato di stare lì, parlare, scrivere

D - “Per Ulisse” è stato molto apprezzato; oltre ad essere stato trasmesso in vari cinema all'estero e in Italia, nel nostro paese ha vinto il 54° Festival dei Popoli di Firenze, uno dei premi più prestigiosi a livello nazionale e internazionale. Ti rende più orgoglioso aver fatto un documentario di qualità, o aver portato alla luce del sole un'umanità che troppo spesso vive in una situazione di marginalità sociale?
R - Di film che parlano di marginalità sociale ce ne sono tanti. Di film che denunciano, che “portano alla luce del sole”. La mia sfida era di creare l'ascolto, di ascoltare persone, i loro racconti, aldilà delle categorie sociali. Di cambiare lo sguardo, di rompere le frontiere rassicuranti della “normalità” e del “disagio”. La mia sfida era che questo lo potevo fare lavorando sul linguaggio del cinema, sulla narrazione stessa, sul montaggio. Più che la “qualità” mi interessa lavorare sulle frontiere del linguaggio cinematografico. Che questo venga riconosciuto, apprezzato e premiato, certo è una bella soddisfazione, per me, per i protagonisti del film, per il fatto di dimostrare che si può sempre fare un cinema nuovo e che questo cinema possa esistere

D - Il cinema documentario è ricco di prodotti di qualità che, tuttavia, sono molto difficili da commercializzare, diffondere e, per lo spettatore, reperire. Spesso, se non si ha la possibilità di recarsi a qualche festival o a qualche proiezione organizzata, di un documentario se ne sente solo parlare, senza avere la possibilità di vederlo. Tu che cosa ne pensi? Da cosa dipende secondo te? Intravedi qualche cambiamento all'orizzonte?
R - Penso che le cose stanno cambiando, perché devono cambiare nella situazione disastrosa della distribuzione in Italia. Il discorso vale per il cinema documentario e per tutto il cinema detto indipendente. Se ne discute da anni con molti propositi buoni pronunciati in tavole rotonde e convegni. I dati dicono che un film documentario in sala può trovare pubblico. Basta chiedere al cinema Nuovo Aquila a Roma, dove il mio film esce. Ci sono film documentari usciti, con esiti buoni, in questi ultimi anni. Tecnicamente oggi la distribuzione costa meno, non ci sono più copie da stampare. Chi ci ha guadagnato sono i distributori, a cui non è stato chiesto, come in Francia, di contribuire alla digitalizzazione delle sale. Ma se ne fa poco, di questa possibilità, perché anche quando l'esercente decide di innovare, fare una programmazione aperta, subisce il ricatto delle agenzie di distribuzione che, in una logica di racket, vogliono avere il controllo sull'offerta di film – altrimenti non gli danno il film di cassetta. Ma dicevo che le cose devono cambiare proprio a causa del disastro in cui questa politica dei distributori ha portato le sale. O cambiano, o chiudono. Oggi se uno ha voglia di vedere un film lo vede più facilmente di quando io avevo 20 anni, all'inizio degli anni ottanta, e frequentavo assiduamente la cinemateca di Bruxelles, e consultavo i programmi, e se un film di cui avevo sentito parlare veniva programmato, ovunque fosse, a costo di fare ore di strada, ci andavo. Alla cinemateca certi film passavano, una volta all'anno – e uno si organizzava. Ora, alla peggio, si scrive al regista su Facebook o sul suo sito chiedendogli cortesemente il link

D – In chiusura, una domanda sulla tua formazione. Dopo aver studiato antropologia, hai avuto la possibilità di studiare cinema sotto la guida di Jean Rouch, uno dei padri dell'antropologia visuale. Anche se il set del tuo film e l'argomento trattato non sono tradizionalmente terreno dell'antropologia visuale, pensi che sia sbagliato definire “Per Ulisse” cinema etnografico? E anche, quanto è forte l'eco di Jean Rouch nei tuoi lavori, e di film come “Les Maitres Fous” (1955) - in “Per Ulisse”?
R - Non so se “Per Ulisse” possa essere definito cinema etnografico. Non credo, o solo nella misura in cui è cinema e il cinema è di per sua natura uno studio dell'uomo, delle sue credenze, del suo rapporto con gli altri. Quello che mi affascinava nello studio dell'antropologia è di guardare se stesso attraverso l'altro. Come la cosmogonia straordinaria dei Dogon, un piccolo popolo del Mali, alla fine ti parla del tuo modo di essere al mondo. Studi l'altro, e l'altro sei tu. E questo è qualcosa che è molto presente nel mio lavoro. Poi, non ho mai pensato all'influenza esplicita di Jean Rouch. Certo, lui parlava dell'esperienza di filmare come di una trance, la cine-trance, in cui il cineasta si immerge come in una danza nel rituale che filma. Parlava del rapporto tra cinema e rituali di possessione – la possessione è il momento in cui tu diventi altro, sei posseduto da un altro. Ed è soprattutto uno strumento per andare aldilà dei limiti, dei propri limiti di percezione, di conoscenza

IL REGISTA

Giovanni Cioni - Nato a Parigi, ha vissuto dall'età di cinque anni a Bruxelles fino al 2004 quando ha deciso di trasferirsi in Toscana. Regista poliedrico, ha studiato cinema documentario sotto la guida di Jean Rouch, padre dell'antropologia visuale e del cinema etnografico. Tra i suoi lavori, oltre a "In Purgatorio" (2009) - selezionato al Festival dei Popoli e al Cinéma du Réel tra gli altri - spiccano anche collaborazioni con artisti di fama internazionale, come  Marta Wengorovius e Martin Berghammer, coreografi e compositori

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