Recensione London Boulevard – I buoni… perdono sempre
Mitchell ex malavitoso da poco uscito di prigione, fa i conti con il suo passato cercando di cambiare vita.

Quando Mitchell alias Colin Farrell esce di prigione, lo aspetta fuori del cancello il suo caro e vecchio amici Billy. Quasi come se non fosse passato neppure un giorno, lo accoglie a casa e gli offre subito dei nuovi "lavoretti". Persino una festa di bentornato in suo onore con tutti che gli infilano oboli in tasca per «poter riprendere a campare».
Ma qualcosa in Mitchell deve essere cambiato. Ed infatti per caso alla sua festa incontra Charlotte - Keira Knightley – diva del cinema avvilita e depressa che ha bisogno di un factotum.
Coincidenze.
Di giorno tutto fare, di notte malavitoso, Mitchell si ritrova incastrato tra due vite: la prima che vorrebbe fare, la seconda che ha già fatto.
William Monahan che si cimenta in regia, dopo un passato da scenografo e produttore – da ricordare "Le Crociate" da lui scritto - punta molto sulla dicotomia altamente simbolica di bene e male. Molto impegnati aredarguire loro stessi, i suoi personaggi, si abbandonano al lato cattivo senza troppo pensarci su. Restano però scoordinati, staccati l'uno dagli altri e raggiungono epifanie frettolose senza neppure un po' introspezione di cui la pellicola vorrebbe sembrare fortemente imperniata. Se la performance interpretativa di Farrell rimane di livello, i restanti personaggi si conformano all'archetipo del copione senza impossessarsi di quella personalità che da spessore. Charlotte, rimane fino all'ultimo nella sua depressione senza neppure accorgersi che il suo percorso salvifico al bene si è evoluto; lo stesso vale per Jordan – David Thewlis – che sbriga il suo percorso salvifico con – per dirla con le parole del sociologo Émile Durkheim – una forzata faccenda anomica.
Curioso è il caso del gay-boss Grant interpretato da Ray Winstone che ricorre alla dicotomia anche qui stereotipata del: problemi d'infanzia, uguale, rabbia repressa. Anche in questo caso per nulla approfondito, il personaggio rimane vittima di se stesso intrappolato nel ruolo del cattivo in una copia annacquata de "Il Padrino" e il mal riuscito tentativo di dare profondità al lato del disagio, esplicato solo in aforismi tout court forzatamente spiattellati per dare un tono.
Toni chiaroscurati, e inquadrature neorealiste con tratti in stile documentarista, avrebbero voluto dipingere un'Inghilterra del nord livida e bruta, anche qui, contrapposta al fair play anglosassone. Peccato però che l'intento si sia ridotto a qualche slang da nordista difficilmente comprensibile al resto d'Europa nel doppiaggio o, nel caso di chi vedesse il film in lingua originale, la marcatura di accento inglese-del-nord che fa del turpiloquio il suo più passepartout di introspezione.
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