Festival di Venezia 2017, recensione del film 'The Cousin'

Cinema / Festival / News - 06 September 2017 08:00

"The Cousin" è il film in concorso presentato alla Mostra del Cinema di Venezia

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The Cousin (“Ha Ben Dod”) racconta la storia semiseria di una famiglia che vive a Gerusalemme, composta dal padre Naftali (Tzahi Grad, anche regista), esponente dei media locali, dai due figli e la moglie.

Una mattina Naftali commissiona ad un operaio palestinese, Fahed (Ala Dakka) di abbattere un muro sulla sua proprietà in un villaggio israeliano. Ma la conoscenza di Fahed pare essere stata superficiale, perché quando una giovane donna che vive vicino è aggredita, le accuse cadono subito su di lui. Infatti Fahed viene considerato un estraneo, ma Naftali lo difende.

L’atteggiamento di Naftali è lo stesso del regista, che dubita nella direzione degli attori e nelle scelte narrative: picchia la moglie e non si comprende il motivo, quasi alludendo ad altri maltrattamenti. La presenza dei vigilanti che sono nel suo giardino è ingiustificata, perché arrivano per proteggere non si sa da quale pericolo.

La società israeliana che ne deriva è piena di contraddizioni, in bilico tra riformismo e conservazioni dei dettami religiosi, triangolati tra religione mussulmana, cristiana ed ebraica. Dalla sequenza in cui a tavola si ragione del biblico Ismael, e delle parentele che conducono alla validità delle varie religioni trapela come la fede sia connaturata alla quotidianità.

E il dubbio s’insinua in Naftali, tanto che comincia a credere che Fahed sia l’autore della molestia alla donna. La pressione dei vicini modifica il suo modo di ragionare, cosicché fa gesti inconsulti che poco sono motivati dalla storia, come non accompagnare la moglie al pronto-soccorso, sparare in aria, picchiare un uomo che ritiene poi essere il parente del vero artefice della molestia.

Lo spaccato che il film crea è vivido sulla società palestinese, ma troppo frammentario per essere considerato esaustivo. La paura dell’altro, il pregiudizio sono argomenti che trovano nel sostrato israeliano un’accezione quasi diversa dalla nostra, perché appunto connaturata con una religione pervasiva. Ed era proprio questo il dubbio che ci sarebbe piaciuto vedere, e che resta invece sullo sfondo di una sceneggiatura che alterna inseguimenti in bicicletta a dialoghi stanchi poco affini alla tematica principale.

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