Festival di Venezia, recensione del film 'First Reformed'
"First Reformed" è il film presentato in concorso al festival di Venezia

“L’angoscia che si prova prima della nascita di un figlio non è paragonabile a quella per averlo spinto a morire”, dice il reverendo Toller ad un uomo, che vorrebbe convincere la moglie Mary (Amanda Seyfried) ad abortire.
È questa la sintesi di un film rigoroso, "First Reformed" che Paul Schrader dirige sul filo di un geometria visiva rara, che echeggia le pellicole del danese Carl Theodor Dreyer. Dopo lo scandaloso “The Canyons” e l’aggressivo “Cane mangia cane” torna ad una limpidezza di racconto persa da anni, agevolata dalla una sceneggiatura scritta da solo.
Così il reverendo Toller deve consolare il marito di Mary dalla depressione che lo attanaglia, la stessa donna dall’atto terroristico che l’uomo potrebbe compiere. Infatti nell’ordinarietà della loro vita non ci sono picchi di emozioni, solo un figlio che sta per nascere e la preoccupazione per un avvenire incerto.
E tale praticità è la stessa che usa Schrader per raccontare gli eventi, con Toller che assiste alle prove del coro della chiesa, l’insegnante che gli chiede di andare a pranzo, il diario che lui tiene scritto a penna e che sarà distrutto dopo 12 mesi. La tensione non è creata da uccisioni improvvise e vette di follia come in “Cane mangia cane”, bensì dosata scena dopo scena. Quando Toller va a pranzo con l’insegnante non accade nulla di ciò che si potrebbe aspettare, come una relazione tra i due: “quello che mi sta a cuore è la tua felicità” dice la donna.
Dopo il profluvio di colpi di scena prevedibili cui il cinema action e non solo ci ha abituato, sapere che basta un colloquio tra persone per innescare l’immaginazione è quasi rappacificante. Infatti Torrel troverà un solo cadavere, quello del marito di Mary che si è tolto la vita. Da qui inizia un nuovo percorso, fatto di domande sull’esistenza di Dio e sulla validità dei suoi insegnamenti.
Ma è sopratutto la scenografia di “First Reformed” (il titolo è riferito alla parrocchia del sacerdote) ad essere protagonista del film, per la sua essenzialità fatta di colori che solcano la neve, inquadrature di ambienti esterni con linee volontariamente perpendicolari, porte e finestre verniciate di bianco senza sbavature. Un’inflessibilità cui Torrel si costringe, dopo un momento della vita in cui ha provato la sofferenza di aver convinto il figlio ad andare in spedizione in Iraq, una nazione da cui non è più tornato sancendo anche la fine del matrimonio. Una confessione che fa al marito di Mary prima che questi si suicidi, affermando anche - con una voce fuori campo per nulla invasiva - che quella discussione con l’uomo sulla validità della continuazione della vita è stata complicata quanto la lotta del biblico Giacobbe con il diavolo.
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